Il paradigma del “adesso o mai più” che si traduce con “ormai” o con “tanto domani non mangio” è ciò che fa da sfondo a molti momenti di abbuffata. Vediamo cosa succede nella mente in quegli istanti e da dove arriva questo modo di pensare
Il fine dell’articolo è quello di farti conoscere la realtà delle abbuffate in modo da poter essere d’aiuto a te o magari a una persona a te vicina. In questo articolo non si trova la spiegazione del mio metodo per uscire dalle abbuffate, questo non è il contesto adatto per spiegarla perché necessità un inquadramento più ampio.
Se quello è ciò che ti interessa, c’è il mio libro TANTO DOMANI NON MANGIO, lì trovi la metodologia che come coach uso per far sì che chi ne soffre possa uscire dal labirinto delle abbuffate. Se è di questo che senti la necessità, è lì che troverai la risposta. Anche in fondo all’articolo trovi il link per acquistarlo.
C’è una fonte di stress continua presente nella vita di chi è dentro il labirinto delle abbuffate. È importante che tu la conosca per poter comprendere al meglio alcuni comportamenti, come un invito rifiutato, un senso di nervosismo al momento dei pasti o un’eccessiva fretta nel mangiare. Conoscendo questo aspetto potrai essere presente al meglio per la tua persona del cuore.
Negli articoli precedenti hai compreso in che modo l’abbuffata (binge eating) si distingue dal mangiare più del previsto e scegliere consapevolmente di avere un pasto più abbondante di tanto in tanto (over eating). È una distinzione vitale da conoscere se vuoi approfondire la tematica abbuffate, che ti invito a recuperare se non lo hai già fatto.
Una volta conosciuta l’essenza di un’abbuffata la domanda che sorge comprensibilmente nella mente di tante persone è: perché? Perché chi si abbuffa lo fa? Qual è la motivazione che spinge ad abbuffarsi? Questa domanda non sorge solo a chi osserva o conosce le abbuffate dall’esterno, ma naviga anche nella mente di chi è dentro a quel labirinto. Spesso sono quest’ultime a rivolgermi nel Coaching domande come: perché tutti riescono a mangiare normalmente e io no? Perché non posso tenere in casa quei biscotti e mangiarne qualcuno a colazione, per poi dimenticarmi della loro esistenza? Perché sono così intelligente sul lavoro e su questo aspetto scivolo come una bambina indisciplinata? Perché mangio così tanto anche se so quanto mi farà star male?
Quello di cui ci occupiamo qui non è andare a comprendere a pieno il perché.
Le persone mangiano in eccesso per motivi molteplici. In particolare, nel mio libro Tanto domani non mangio, mi concentro sul fattore neuro-fisiologico che scatena lo stimolo all’abbuffata, perché questo, per me e per tante persone che ho supportato nell’uscire dalle abbuffate, è stato la chiave di volta per poter fare davvero la differenza.
In questo articolo viene approfondito un aspetto che a volte è considerato come causa principale o unica delle abbuffate, ma che, secondo il mio metodo, non sempre lo è. Parliamo di come il cibo sia percepito scarso da chi poi finisce per assumerne in quantità eccessive. Questa è una componente che condiziona tutta l’esperienza della persona che si abbuffa, sia al momento dei pasti, che al di fuori degli stessi.
Viviamo nel mondo dell’abbondanza, dove un grande problema è lo spreco di cibo. Allora perché qualcuno lo percepisce come scarso? Questa percezione di scarsità non è frutto di una realtà esterna, ma molto più spesso è la conseguenza di una realtà interna che la persona ha creato per se stessa, pur non volendo o pur non sapendo quello che stava facendo.
La quasi totalità delle persone che si abbuffano si svegliano la mattina con un obiettivo nella mente: mangiare poco, mangiare il meno possibile o non mangiare a meno che non ci siano certe condizioni. Molte di loro da anni non hanno mai abbandonato l’intento di restringere o mangiare il meno possibile. È una lotta estenuante che si svolge nelle loro menti. Non si tratta solo di essere da anni a dieta, si tratta di aver creato nella propria mente una realtà dove il cibo è un bene di cui bisogna approfittare in determinate circostanze, perché potrebbe essere sottratto da un momento all’altro.
Queste persone possono aver vissuto le più disparate esperienze con il cibo, come essere state sottoposte a restrizioni alimentari eccessive durante l’infanzia, oppure aver avuto la sfortuna di incontrare professionisti che le hanno sottoposte a diete da fame, o invece essersi autonomamente sottoposte a regimi altamente restrittivi o a digiuni forzati e prolungati. In tutte queste situazioni, il cibo è stato per loro effettivamente scarso, non solo come percezione soggettiva, ma anche a livello fattuale.
Ti racconto un passaggio della mia vita in cui soffrivo di anoressia nervosa ed ero molto sottopeso, così da farti toccare con mano l’esperienza che si autoinfligge una persona che ha deciso che il cibo per sé sarà scarso. All’epoca avevo 17 anni, ero eccessivamente magra e l’attività fisica comportava una grande minaccia per me. Perdere anche solo qualche etto in pochi giorni avrebbe potuto compromettere la mia salute; tuttavia, i medici che mi seguivano all’epoca, anche per cercare di farmi riprendere contatto con la vita, decisero che potevo concedermi qualche giorno a sciare, a patto che la mia dieta fosse rivista in accordo con tutte le calorie in più che avrei consumato attraverso lo sci.
Il racconto che ti lascio nelle successive righe riguarda la mia esperienza personale, ma è importante che tu sappia che le restrizioni possono anche avvenire al di fuori da un contesto patologico e che il mindset di restrizione appartiene a persone con ogni tipo di fisico e corporatura.
Sono molto magra, ma i medici hanno deciso di farmi partire per qualche giorno in montagna. Il mio piano alimentare, che ogni settimana mi viene consegnato, è stato adattato nei minimi dettagli al fatto che mi muoverò sugli sci per diverse ore al giorno, perciò dovrò integrare con cioccolate e vari cibi calorici. Mi fa paura!
Adesso però è pomeriggio e io quella cioccolata prevista per merenda non voglio proprio mangiarla. Al solo pensiero sento un pericoloso strato di grasso che si avvinghia al mio sottopelle.
Ed ecco che arriva il momento fatidico in cui mia sorella con amore mi consegna la malefica barretta al cioccolato, ricordo ancora che era un Kinder Cereali, ne conoscevo perfettamente le calorie.
A quel punto ho il cuore che mi batte a mille: non la voglio mangiare, non la mangerò̀! Approfitto di un raro momento di distrazione di mia sorella per gettare la cioccolata dalla finestra dell’albergo rimanendo con la sola carta in mano.
Appena me ne libero mi accorgo di aver centrato la testa di un signore che stava rientrando con i suoi sci in spalla e che ora si guarda intorno con aria spaesata. Si starà chiedendo da dove piova cioccolato. Io mi nascondo dietro la tenda mentre lui rimane lì̀ basito. La mia unica preoccupazione in quel momento è far finta di masticare una cioccolata in realtà mai mangiata.
È stata solo una delle mille volte in cui ho trovato modi complicati e disonesti per mangiare meno: ero diventata una maga nell’elaborare strategie contorte per non ingoiare cibo, dando agli altri l’illusione che lo facessi. La mia mente non pensava ad altro da mattina a sera: “Come posso fare per assumere la minor quantità possibile di calorie?”
tratto dal mio libro TANTO DOMANI NON MANGIO
Ricordo una cliente che durante la prima sessione di Coaching mi dichiarò: “Angela, io mangio a sufficienza, non sono più a dieta, mangio anche i dolci, eppure periodicamente mi abbuffo. Perché?” Questa dichiarazione proviene da due convinzioni. La prima che quando si smette di restringere eccessivamente le abbuffate scompaiano in maniera naturale; la seconda, che ci sia solo un tipo di restrizione.
In realtà, esistono ben 5 tipi di restrizione che possono essere messi in atto da chi si abbuffa e che fanno percepire il cibo come scarso:
- Restrizione quantitativa: si sintetizza nel pensiero “posso mangiare solo un certo quantitativo di cibo” oppure “mangia il meno possibile, sempre”;
- Restrizione qualitativa: si sintetizza nel pensiero “mangia solo certe tipologie di cibo ed evitane a tutti i costi delle altre”;
- Restrizione di tempo: si sintetizza con la regola “mangia solo all’interno di certe fasce orarie”;
- Restrizione collegata al verificarsi di condizioni fisiche specifiche: si esplicita con pensieri come “mangia solo a patto che tu stia morendo di fame” oppure “mangia solo a patto che tu abbia fatto sport” o ancora “mangia solo a patto che il peso sulla bilancia sia sceso”;
- Restrizione collegata al contesto sociale: si esplicita con pensieri come “mangia solo a patto che anche altri stiano mangiando” o al contrario “mangia solo se nessuno sta guardando”.
Questi tipi di restrizioni, con le loro regole, si possono anche combinare tra di loro, anzi nella maggior parte dei casi avviene proprio così.
In realtà quella cliente che mi aveva dichiarato di star mangiando a sufficienza non era davvero al di fuori di ogni restrizione: abbiamo scoperto insieme, osservando con attenzione la sua esperienza interna, che le regole presenti erano ancora tante.
È da chiarire che questo non significa che le regole siano sempre sbagliate e da scardinate per lasciare spazio alla libertà assoluta. Raggiungiamo obiettivi e sposiamo i nostri valori grazie anche alle regole. Spesso il lavoro da fare è creare un nuovo rapporto con esse, che non crei senso di scarsità rispetto al cibo. Infatti, la scarsità è creata dal modo in cui la persona vive il proprio sistema di regole interne. L’abbuffata è il momento in cui la persona lascia andare queste regole, in maniera violenta e disfunzionale, non in modo graduale e funzionale. Spesso questa modalità è l’unica che conosce per abbandonarle.
Per comprendere questa dinamica puoi immaginare che la persona stia tirando una fune, applicando tutte le sue forze. All’inizio farlo sembra sostenibile, ma poi ci sono dei momenti in cui, per varie ragioni, sente il bisogno di allentare la presa. La potrebbe allentare, ma quella persona conosce solo due modalità: tenere la fune talmente stretta da farsi sanguinare la mano oppure mollare la fune. L’abbuffata è il momento in cui molla la fune, mentre nel resto del tempo la fune provoca profonde ferite sul palmo della sua mano.
Quando qualcuno da fuori invita chi si abbuffa a darsi una regola ciò che succede è che sta chiedendo di allentare un po’ la presa, di non tenere la fune con troppa forza ma nemmeno con troppo poca. Il fatto è che la mano di quella persona sta sanguinando e, quando non ce la fa più a reggere la fune, non può che mollarla.
A questo punto capirai che il problema non è, come spesso si pensa, la forza di volontà: quella persona sta esercitando la propria forza di volontà per la maggior parte del tempo, pagandone le spese con una mano sanguinante.
Quello che ancora non sa fare è allentare la presa senza mollare tutto.
In questa fase non è necessario che tu comprenda a fondo le causa profonde di questo meccanismo: potrai essere di autentico supporto a chi soffre di abbuffate, anche se non comprendi la totalità delle cause che portano a quel comportamento. Il tuo ruolo non è essere lo psicanalista di quella persona, ma puoi essere fonte di supporto pratico ed emotivo, una fonte di sollievo e uno spazio sicuro.
Quindi, cosa puoi fare nel concreto?
Prima di tutto evitare di dare consigli di carattere alimentare. Chi si abbuffa non ha problemi a sapere cosa è bene fare. Con consigli di questo tipo rischieresti di sovraccaricarla di altre regole, che potrebbero contribuire a tenere la fune con una stretta ancora più serrata e farsi ancora più male.
Inoltre, nelle occasioni conviviali evitare di pronunciare frasi come: “dai solo per oggi!”,
“ma sei sempre a dieta?”, “fregatene una volta tanto”. Non invitare la persona nemmeno ad allentare la presa e a fare strappi alla regola, anche se è Natale, il tuo compleanno o il suo compleanno. Lasciala libera di scegliere cosa mangiare. Quella concessione, infatti, rischia di far entrare la persona nella dinamica del “tutto o nulla”.
Questo tipo di comunicazione non farebbe altro che aumentare il senso di scarsità collegato al cibo: “lo mangio adesso o mai più”, “approfittane adesso, così puoi mangiare ciò che per il resto del tempo ti neghi”. Inoltre, potrebbe condurre la persona ad un dilemma: mangio o non mangio. In entrambi i casi si genera senso di colpa: se mangio, mi deludo; se non mangio, deludo gli altri.
Inoltre, ti consiglio di essere presente senza l’intenzione di controllare: assisti ai momenti in cui la persona del cuore ha la presa serrata e assisti ai momenti in cui lascia andare la presa. Resta presente con lei, parlaci, chiedile se ha bisogno di interrompere per un po’ il pasto, non darle consigli, al massimo crea uno spazio per poter ragionare con lucidità, ad esempio come spiego nel mio libro, spesso venire via da dove il pasto si è consumato è un’ottima strategia. Pian piano abbandona l’idea che la soluzione da adottare sia “così semplice” perché non lo è. Se lo fosse, la tua persona del cuore l’avrebbe già messa in pratica. Spesso ha bisogno della tua presenza molto più di quanto abbia bisogno dei tuoi consigli.
Per di più, considera che questo senso di scarsità può essere alla base di un comportamento rigido che ha bisogno, ad esempio, di preavviso rispetto ai luoghi e alle modalità con cui si svolgeranno i pasti. A volte un gesto banale, come chiedere ai vostri amici cosa prevede il menù che hanno pensato per voi e comunicarlo alla vostra persona del cuore, la può aiutare a organizzare un piano in anticipo e gestire al meglio la stretta della fune e la convivialità.